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FILIPPO IANNARONE

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FILIPPO IANNARONE

La Vigilia di Natale del 1946

2022-12-26 15:55

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La Vigilia di Natale del 1946

Una movimentata mattinata della Vigilia alla Clinica Gavazzeni di Bergamo.

Bergamo, martedì 24 dicembre 1946



 



 



La decisione di Iolanda aveva accresciuto il buonumore di Mari al mattino della Vigilia: recarsi in centro città per gli acquisti di regali avrebbe rotto la routine che lei affrontava ogni giorno da una settimana, dal loro arrivo a Bergamo. L’aveva immaginata camminare a passo svelto nel breve tratto dall’Albergo Cappello d’Oro alla funicolare per la Città Alta e, ancora, nelle salite per le strade del commercio, tra i negozi decorati a festa, finalmente sfavillanti per le strenne natalizie.



La sera prima insieme avevano compilato la lista dei doni per i medici, dal primario agli assistenti, per i fisioterapisti e le suore. soprattutto per madre Maria Argenta, la caposala del reparto, per gli infermieri e gli inservienti, sperando di non dimenticare nessuno del personale delle Cliniche Gavazzeni.



Il ricovero in questa casa di cura era stato deciso per il consulto e i nuovi esami radioscopici suggeriti dal dottor Bevere, il medico che aveva assistito Mari sin dal primo soccorso alle ferite riportate nell’agguato tesogli dalle Schutzstaffel a poche centinaia di metri dal suo nascondiglio romano da partigiano, quasi a ridosso di via Veneto. Da allora erano trascorsi più di due anni, ma i postumi causati dalle pallottole che avevano trafitto la gamba destra continuavano a generare gravi sofferenze: gli incessanti dolori acuti pregiudicavano la deambulazione se non sostenuta da un bastone, tormentavano senza rimedio il sonno nelle ore della notte, in ogni caso impedivano il rientro in servizio effettivo da ufficiale di stato maggiore. A poco erano valsi gli interventi chirurgici e i cicli di riabilitazione, le terapie con farmaci innovativi giunti appositamente dagli Stati Uniti, il peregrinare tra ospedali e cliniche specialistiche, in Italia, in Svizzera e persino in Francia.



Da ultimo la conferma incoraggiante del fratello Michele, medico militare reduce della guerra di Etiopia, aveva convinto Mari ad affrontare questo ulteriore tentativo di ottenere una prognosi favorevole a una graduale ripresa di vita attiva, sottoponendosi alle cure che avrebbe prescritto il professor Silvio Gavazzeni: l’illustre clinico godeva di grande fama scientifica sin dal 1914, quando aveva conseguito la libera docenza in Terapia Fisica alla Regia Università di Torino, confermata dai notevoli successi professionali nella clinica da lui fondata a Bergamo con un annesso stabilimento balneo-idroterapico.


La clinica era moderna nelle attrezzature e dotazioni scientifiche, oltremodo confortevole grazie a uno stile di tipo alberghiero, con un numeroso personale attento e premuroso, con la cucina migliore che aveva sperimentato durante le precedenti degenze. Unico rammarico era la separazione da Iolanda, che aveva dovuto prendere alloggio in un hotel distante poche centinaia di metri.



Grazie alla mattinata libera da appuntamenti, dopo il bagno caldo e la rasatura eseguita con maestria dal barbiere di turno, Mari si attardò alla finestra della camera distratto dalla vista delle evoluzioni di uccelli nel parco ammantato di brina. Li osservò planare, svolazzare, saltellare, librarsi, volteggiare a volte a frotte, a volte solitari. Riuscì a riconoscere pettirossi, capinere, merli, fringuelli, cardellini, verdoni, persino cince e scriccioli: tutti attratti da mangiatoie di becchime sparse tra i prati e le macchie di boschetti.



«Colonnello, permette?» una discreta bussata alla porta accompagnò la voce e l’apparire di una giovane suora «le porto i quotidiani e i settimanali che ci ha chiesto la sua signora…»



«Avanti, avanti» Mari si voltò piroettando sul bastone «mille grazie, sorella. Così avrò una mattina da dedicare alle notizie dal mondo.»



La suora cominciò a disporre sul tavolino accanto alla poltrona i quotidiani in bell’ordine e quindi i rotocalchi.



«O signore benedetto!» strillò all’improvviso con un acuto disperato ritraendosi di soprassalto «che orrore…»



Lei, minuta com’era, tremolava d’agitazione, lo spavento le raggelava gli occhi scuri, le piccole mani si intrecciavano nervose.



Mari con passo malfermo le si avvicinò mentre impallidiva segnandosi con la croce, poi adocchiò le riviste e comprese.



Nella tavola di copertina de “La Tribuna Illustrata” era raffigurato un giovane africano mezzo nudo nell’atto di trafiggere un anziano frate con una lancia. La didascalia riferiva che il fatto era accaduto in Sudan, che vi erano stati cinque feriti oltre al religioso ammazzato, che l’aggressore in preda a pazzia si era suicidato con la stessa arma.



«Su, suvvia sorella» le si rivolse con tono suadente «non deve spaventarsi per la crudezza di un’immagine. Purtroppo, fatti simili a questo accadono ovunque, ogni giorno.»



«Ha ragione, avete ragione» balbettò con un filo di voce la suora aggiustandosi la cuffia e il velo «lo dice anche la madre superiora che mi impressiono per un nonnulla, che mi agito per sciocchezze…»



«Davvero? Ci sarà pure una ragione per queste sue reazioni?» domandò Mari con l’intento di discolparla.



La suora abbassò la testa sospirando.



«Non so, non saprei. Ogni giorno lavoro e prego, ogni giorno. È questo il mio mondo, ciò che conosco grazie alle sante scritture e all’aiuto delle consorelle…»



«Quindi, quel che non vi appartiene la preoccupa fino a spaventarla?» insisté Mari.



«Colonnello, forse non dovrei permettermi di rispondere alle sue domande» lei infilòò le mani sotto la pettorina della tonaca «desidero soltanto dirle che sono in convento dall’età di dieci anni per volere della famiglia. Ora che ho diciannove anni non so neppure dove siano i miei genitori e i sei piccoli fratelli e sorelle: la guerra ha cancellato tutto, per sempre… amen.»



 La suora soffocò l’emozione in un lungo singhiozzo, il capo chino con il velo a nascondere il viso.



«La guerra, già la guerra…» mormorò Mari «il male assoluto, il peccato capitale dell’umanità.»



Rimasero in silenzio per alcuni istanti, ciascuno con la propria afflizione.



«Se non le occorre altro continuerei i miei compiti» la suora s’interruppe sovrappensiero, poi schiarì la voce «se ha bisogno suoni pure il campanello. Ci sarò fino alla messa di stasera, anzi di questa notte santa.»



«Grazie, sorella…» rispose Mari con una nota di incertezza.



«Ha ragione, perdoni non mi sono ancora presentata» la voce fu di nuovo squillante «sono suor Maria Rosalba.»



«Dunque, grazie suor Rosalba. Non la disturberò, almeno per oggi spero.»



«Quasi mi dimenticavo» esclamò lei uscendo «oggi ci sarà soltanto la visita del medico di turno nel reparto. È sempre così in un giorno speciale come la Vigilia. A più tardi, Colonnello.»



«Non mi muoverò di qui» Mari sorrise scherzoso «devo curare i miei giornali.»



Sedette in poltrona e iniziò a sfogliare il primo quotidiano. Scorse velocemente gli articoli in prima pagina: “La Seconda Camera e la rappresentanza degli interessi”, “Il dilemma del Papa e i nuovi aspetti della lotta politica”, “Oltre la cortina di ferro – La proprietà in Bulgaria”, “L’Unione della Sarre alla Francia”. Un articolo di fondo pagina eccitò la sua attenzione: “Un manoscritto del Petrarca nello zaino di un soldato americano per pochi pacchetti di sigarette” a firma di un giovane corrispondente da New York, un giornalista brillante nei pezzi meritevoli ogni volta di particolare interesse.



Dapprima lo divertì la storia.



A Napoli nel ’43 un giovane soldato americano, che ignorava il latino, aveva acquistato da un anziano signore, che non parlava l’inglese se non a gesti, un manoscritto del “De Africa” datato 1337. Il soldato era affascinato da quel souvenir dall’aspetto antico ripagato con pochi dollari e due stecche di sigarette. Non se ne era separato neppure durante lo sbarco in Normandia e una volta tornato in patria lo aveva messo in bella mostra nella sua bottega di artigiano. Poi, dopo qualche tempo pensò che il giusto posto di quel libro antico fosse una biblioteca, così lo portò a New York dove un esperto della Cornell University accertò da un ex libris l’appartenenza del volume all’Università di Trieste. Il giornalista riferiva che il giorno prima per il testo petrarchesco era iniziato il viaggio di ritorno in Italia sul piroscafo Vulcania.



Mari ripiegò il giornale, chiuse gli occhi e prese a inseguire i pensieri che si affollavano, si sospingevano l’uno sull’altro, scivolavano dispersi nell’indeterminatezza, risalivano da profondità tenebrose lungo i filamenti della coscienza. Di quella lettura trovò singolare esservi stato l’intendimento tra il linguaggio mimato dettato dalla necessità viziosa con la disponibilità imposta dalla libido narcisista di possesso: era una delle imprevedibili conseguenze originate dalla guerra, certo non la più deprecabile. Poi, constatò come là una buona volta l’ignoranza aveva risvegliato il dubbio per quell’intelligenza che involontariamente non si era elevata a intelletto: nondimeno si era sforzata di annusare il valore eterno del capolavoro dell’arte, dell’opera di un umano ingegno che alto vola su montuosità e deserti, che svetta tra le trasmigrazioni su acque immense. Pensò che la casualità aveva impedito la rovina, la dissoluzione, la scomparsa, il perire del sublime capolavoro; ipotizzò altrimenti che vi era stata una piega in quel destino lineare rappresentato dal senso comune, un tocco magico che aveva impedito che l’arte perisse, scomparisse, si dissolvesse, rovinasse. Peraltro, la guerra era stata la causa anche di quell’avvenimento: quello era da sempre il primo motore infernale della storia di sangue del genere umano, la stessa guerra che aveva imprudentemente nominato a suor Rosalba, il male assoluto che pure l’aveva violata da giovinetta novizia e dopo ancora da giovane suora. La guerra, già la guerra… il pernio della sua esistenza, della vita che troppo spesso aveva posto in pericolo inconsapevolmente…



D’un tratto Mari scrollò la vertigine dei ragionamenti, d’istinto aprì gli occhi e si voltò.



Sulla soglia della porta gli sorrideva un uomo in camice bianco e stetofonendoscopio intorno al collo.



«Non volevo disturbarla, Colonnello» disse avanzando nella camera «forse non ho bussato in modo giusto. Sono Giulio Bussolengo, oggi sono qui per lei…»



«Sì, sì certo. Suor Rosalba mi aveva avvisato della sua visita» lo interruppe Mari squadrandolo meglio grazie alla luce dalla finestra «mi permetta di non alzarmi, dottore, credo sappia che ho qualche difficoltà…»



«Non si incomodi. Piuttosto, con il suo permesso vorrei esaminare la cartella clinica, poi sarò con lei per il tempo che mi concederà» il tono cortese rispecchiò in modo esemplare lo stile della casa di cura.



«Credo che mia moglie l’abbia riposta nel cassetto dello scrittoio…»



«Perfetto, Colonnello. Posso sedermi vicino a lei per esaminarla?»



Mari annuì e lo osservò mentre cercava il fascicolo da tempo corposo con le anamnesi, le diagnosi, i certificati, le terapie seguite, i farmaci assunti e i dettagli necessari all’arte medica. Continuò a osservare il medico mentre questo leggeva rapidamente i tanti fogli seduto dinanzi a lui: aveva le spalle larghe e le mani possenti, che rivelavano un fisico atletico sebbene nascosto dal lungo camice. Notò anche i folti capelli biondi e i baffi sottili ben curati, alla moda di certi attori americani, gli occhi neri mobili e vivaci. Nonostante una leggera pronuncia della erre alla francese, l’accento lo indicava verosimilmente come lombardo. Quindi, aveva di fronte un medico molto giovane che probabilmente aveva frequentato l’università in coincidenza con il periodo bellico, la guerra e l’occupazione. Allontanò altre considerazioni in proposito e ruppe la lunga pausa di silenzio.



«Non credo di averla incontrata sinora.»



«Non sarebbe stato possibile» il giovane medico richiuse la cartella medica e lo guardò compiaciuto «sono qui per una breve sostituzione durante il periodo delle festività. Mi sono laureato a Parma la scorsa estate e poi ho iniziato il tirocinio.»



«Lo immaginavo… e quindi con piacere collaborerò con lei: da dove cominciamo, dottore?» Mari replicò scherzoso.



«Bene, allora esaminiamo i parametri generali di oggi: temperatura, pressione arteriosa, frequenza cardiaca e auscultazione toracica…»



«Sono pronto» per abitudine acquisita Mari arrotolò la manica della camicia sul braccio «preferisce che mi alzi, che mi stenda?»



«No, no. Resti pure in poltrona» il dottore estrasse dalla tasca del camice uno sfigmomanometro, posizionò il bracciale e lo stetofonendoscopio, di questo infilò gli auricolari.



Le manovre si susseguirono rapide, ma accorte e precise come Mari aveva appreso ormai per esperienza su sé stesso dopo il ferimento. Quindi si sottopose all’auscultazione del torace, alternando respiri lunghi a brevi oppure trattenendoli secondo la richiesta. Come al solito si rassegnò al freddo contatto tra la pelle e il metallo dell’apparecchio sanitario. Nel contempo la misurazione del termometro confermò una condizione assolutamente normale. Anche il controllo visivo del cavo orale, della lingua, dei bulbi oculari e delle congiuntive nulla rilevò di anomalo: ogni esame risultava confortante per quanto desumibile dal ripetuto mugolio di approvazione del medico.



«Direi che lei è in una condizione di buona salute» confermò quest’ultimo, la soddisfazione evidente nell’espressione rilassata.



«Me lo dissero anche i medici militari in accademia… più di venticinque anni fa» Mari rise per primo della facezia.



Il dottor Bussolengo lo imitò e tornò a sedersi: «Il suo buonumore è invidiabile.»



«Se lo fosse veramente non sarei qui» la voce di Mari vibrò di amarezza «credo sia scritto a chiare lettere nei referti che ha esaminato.»



Il medico riprese a sfogliare la cartella clinica come alla ricerca di qualcosa che potesse essergli sfuggito o che avesse trascurato. Girò e rigirò tra le mani uno, due, dieci fogli, aprì una busta, guardò controluce alcune lastre radiografiche, mormorò un conteggio incomprensibile se non per i posizionamenti delle dita.



«Le ferite da lei riportate sono state operate perfettamente, le lesioni ossee appaiono calcificate propriamente» iniziò un commentare lento, guardando al soffitto come polarizzato dall’intento di una compiuta sintesi clinica «le alterazioni di varia natura tessutale presentano evoluzioni patologiche in divenire, mentre si confermano irrisolte compromissioni nervose…»



Mari schiarì la voce roca, levò la mano nel gesto di fermare il profluvio di considerazioni mediche.



«Tutto mi è noto, dottore» la tristezza incrinò il suono di ogni parola «tutto vi è noto… eppure non riesco a liberarmi di fitte e indolenzimenti, di intorpidimenti fino alla mancanza totale di sensibilità. Il mio sonno è frammentato, indotto solo dallo sfinimento di interminabili veglie dolenti. In certi giorni camminare, o se preferisce deambulare mi è impedito dalle trafitture, intense e improvvise quanto potenti.»



L’altro richiuse la cartella clinica, la tenne dritta sulle ginocchia sporgendosi in avanti per esternare l’impulso alla comprensione, l’espressione adesso delusa dalla debolezza di ogni argomento clinico, la fronte aggrottata dall’inquietudine dell’incapacità scientifica: tali erano le sensazioni percepite da Mari, subito elevate a motivazione di ulteriore riflessione diretta a un rinnovato tentativo di liberatoria ammissione.



«Gradirei un bicchiere d’acqua. Le è possibile dottore?»



«Ma certo…» il giovane si alzò e prese dal tavolo accanto alla porta la caraffa e il bicchiere, sollevato dal soddisfare quel semplice desiderio.



Mari bevve avidamente, si asciugò le labbra con il fazzoletto profumato dall’acqua di colonia.



«Forse le sto ritardando il giro di visite? Mi dispiacerebbe…» disse con un fil di voce.



«Non si preoccupi: così ho davanti a me tutto il tempo necessario per trascorrere la Vigilia» il medico rise, nondimeno un lampo furbesco gli accese lo sguardo per disperdersi in un battibaleno «suppongo voglia dirmi altro.»



«Lei mi ha invogliato una confidenza, anzi una confessione, sì una confessione…»  



«E dunque?»



«Quanto hanno scritto i suoi colleghi e quel che le ho detto finora rappresentano soltanto una minima parte delle sofferenze» Mari tacque, sospendendo le parole in un’inattesa indecisione, in un fulmineo timore di eccesso colloquiale. Sentì anche la difficoltà a rispecchiarsi nell’immaginifico riflesso di quanto stava per ammettere, ancora una volta innanzitutto a sé stesso.



 L’attesa muta e il piglio perplesso del medico lo sospinsero a riprendere la determinazione che repentina era arretrata fino a essere scavalcata da irragionevole verecondia.



«Sono intimamente convinto che ho subito le ferite più gravi non tanto nel corpo, quanto qui nella mente…» con il respiro affannoso puntò con forza l’indice alla tempia.  



Il medico rimase impassibile a osservarlo..



«È un’ossessione che mai si sopisce, un assillo che fa le notti insonni più del dolore fisico, un tormento estenuante che non riesco a contrastare» proseguì Mari con tono di nuovo fermo «in qualche misura ne soffrivo già da tempo, anche prima della guerra. Provavo angosce istantanee, vortici di ansia, mi astraevo in ragionamenti confusi fino a provare uno smarrimento di coscienza nel vuoto, una vertigine insuperabile… mi segue dottore?»



Questo assentì chinando il capo.



«Credevo fosse semplicemente una mia debolezza» continuò Mari «ne attribuivo la possibile causa a un eccesso di voraci letture sulle ombre del nostro tempo, sul declino della civiltà, sull’appressarsi di una nuova barbarie. Ne parlavo soltanto con pochissime persone: vecchi compagni di scuola, alcuni fidati amici di sempre. Può comprendere il disagio per un militare di carriera, con una famiglia folta di militari, come i miei due fratelli…»



Ora il medico lo ascoltava con il volto contratto dall’attenzione, i pugni serrati sulle ginocchia.



«Poi è stato un crescendo che ha seguito il ritmo accelerato degli eventi e l’avvicinarsi inesorabile della guerra: quell’attesa ha ingigantito i tormenti della mente per mutarli in incontrollabili fissazioni. Non ero più libero di affermare le mie convinzioni, non più in grado di compiere il dovere dettato dagli ideali dei quali mi ero nutrito, non potevo rispettare il giuramento di lealtà e fedeltà che avevo prestato: dovevo scontrarmi con il mio stesso destino di soldato. Con questo animo ho vissuto le campagne di guerra…»



Il giovane si protese in avanti: «Comprendo cosa prova, mi creda. Vuole ancora dell’acqua?»



«Mi spiace, la sto trascinando nei miei sproloqui» Mari bevve tutto d’un fiato «il mio racconto le sembrerà anche illogico.»



«Assolutamente no!» l’affermazione decisa meravigliò Mari, addirittura lo incuriosì prima di riprendere a narrare.



«Fui inviato a Berlino nel ’42 come ufficiale di collegamento presso il comando germanico per il fronte orientale: ho assistito alla pianificazione di strategie belliche incuranti delle tragedie sofferte su sterminati campi di battaglia. Ho sofferto per ordini criminali scaturiti da puro odio blasfemo, attuati con una potenza annientatrice verso milioni di vittime innocenti. A dispetto di tutto là ritrovai la forza di combattere la mia disperazione.»



«E come?» il dottore reagì con un sussulto, strizzando gli occhi per lo stupore.



«Affidandomi alla speranza concessa dall’audacia: iniziai a frequentare altri ufficiali dissidenti, tedeschi e italiani, a partecipare a riunioni clandestine, a incontrare agenti di nazioni nemiche, tutti alleati contro la sfida del nazismo e del fascismo. Per questo dopo pochi mesi dal rientro in Italia, nella primavera del ’43, mi trovai pronto a combattere in ogni modo, a ogni costo contro l’occupazione nazista e i collaborazionisti fascisti…»



 Mari incrociò lo sguardo divenuto gelido del dottore, scoprì un sogghigno a malapena trattenuto, ma decise di continuare comunque.



«È stata una lotta impari, tanto tragica quanto maledettamente necessaria. Le sofferenze, i lutti, le tragedie hanno oltrepassato qualsiasi pessimistica previsione. Le mie ferite sono state una goccia di sangue dispersa in un mare di dolore» quindi sorseggiò ancora dell’acqua «eppure da allora è cresciuto in me un sentimento rabbioso, un incontrollato desiderio di giustizia, poi un’angoscia dolorosa. Sono divenuti sempre più frequenti le notti schiantate da soprassalti tra incubi e scintille di ricordi…»    



Mari s’interruppe d’improvviso: il dottor Bussolengo era cereo in volto, le labbra contratte e un riflesso malevolo negli occhi. Avvertì una pressante sensazione di disorientamento, un brivido salire per la schiena, una spinta verso una vertigine di emozioni già vissute: tradimento, inganno, intrigo, aggressione, sangue, sangue…



Fece per sollevarsi, vacillò e ricadde pesantemente sulla poltrona.



Il dottore non si mosse, chinato come era, con il viso nascosto tra le mani attraversate da un sussurro confuso e impercettibile: piangeva, piangeva senza singulti, forse senza lacrime, ma piangeva.



Mari attese, si ricompose, bevve ancora a piccoli sorsi svuotando il bicchiere. Attese finché quel bisbiglio indistinto gli sembrò scemare in un silenzio impenetrabile.



«Prenda il mio fazzoletto, se desidera…» disse allungandosi per porgerlo.



L’altro alzò gli occhi e gli sorrise, prese il fazzoletto e lo premette sulla bocca, poi si soffiò il naso.



«Glielo farò riavere prima possibile…» infilò la pezzuola appallottolata nella tasca del camice «dunque, credo che la mia visita sia terminata…»



  Mari sbarrò gli occhi, ammutolito dallo sbalordimento, la mano sospesa a mezz’aria per rimarcare parole che non riuscì ad articolare. Il formicolio alle gambe lo distrasse da quell’esito surreale della conversazione.



Il medico aprì il cassetto dello scrittoio, vi ripose la cartella clinica, lo richiuse e preso un foglio dal sottomano iniziò a scrivere, rimanendo in piedi.



«Le trascrivo le mie prescrizioni» disse a voce alta lisciando i folti capelli, poi riprese a vergare il foglio.



La bussata alla porta precedette di un istante l’ingresso di un’inserviente seguita da suor Rosalba:



«Colonnello, il suo pranzo è…» la voce della religiosa soffocò per lo sconcerto «Bussolengo! Domineddio, aiutami!» gridò.



Quello si voltò ridendo divertito per lo strepito e l’invocazione, poi riprese a scrivere.



«Corri, correte da madre Argenta…» urlò ancora la suora.



L’inserviente tremante si sbarazzò del vassoio, non senza baccano di piatti e bicchieri, e fuggì fuori nel corridoio urlando a perdifiato: «Aiuto, aiuto accorrete, accorrete…»



Suor Rosalba si piazzò sulla porta, aveva il viso accigliato, le mani tese in avanti e tremanti:



«Bussolengo, non muoverti da lì» la voce era forzata a dissimulare timore «stai calmo, non ti agitare».



L’altro si voltò, poggiò il dorso allo scrittoio, le braccia conserte, un sorriso serafico per un’espressione da innocente.



Mari si alzò di scatto, con il maggiore slancio possibile e il bastone per appoggio.



«Dottore, sorella, vorrei sapere cosa sta succedendo?» la sua voce risoluta si levò alta con il tono del tutto imperturbato dell’intimazione.



«Nulla, nulla Colonnello» madre Argenta irruppe ansimante spintonando la giovane consorella «le spiegherò ogni cosa. Bussolengo ma cosa hai combinato? Proprio oggi, alla Vigilia?»



Le domande rimasero senza risposte dacché due infermieri nerboruti avanzarono prepotentemente e con mosse rapide e decise affiancarono il giovane, lo strinsero in una sorta di forzato abbraccio che a malapena gli avrebbe consentito di camminare, ma non di sgattaiolarsela.



«Arrivederci, Colonnello, stia certo che le restituirò il fazzoletto» fu il congedo di Bussolengo unitamente a un sorriso enigmatico.



Quindi, il terzetto infilò rapido la porta seguito dappresso da suor Rosalba.



«Madre Argenta, immagino cosa sia successo» Mari si sedette sul bordo del letto, le mani appuntate sul pomo del bastone «nondimeno preferirei non credere alla mia supposizione…»



La suora gli si avvicinò e sospirò a lungo: era ancora affannata per l’improvviso allarme, il volto maturo dal colorito rosaceo era incorniciato ora da cuffia e velo un po’ sbilenchi, le mani forti strette sui fianchi davano maggiore rilievo alle prominenze della tonaca.



«Prenda respiro, Madre. Se le occorre si serva pure dell’acqua.»



«Grazie ugualmente, Colonnello, ora sto meglio» la suora alzò le braccia al cielo, la corona del rosario stretta in mano «una Vigilia movimentata come ha visto, e non succede spesso… per amor del cielo!»



«Mi perdoni: non succede cosa?»



«Ha ragione, mi lasci spiegare. Stamattina dopo il servizio della prima colazione Giulio, il signor Bussolengo, è sfuggito al controllo degli infermieri nel reparto dove è ricoverato…»



«Ricoverato?» Mari la interruppe allibito «e in quale reparto?»



«Sin dal ’39 nella nuova clinica è stato costituito un padiglione per la neurologia e le patologie psichiatriche meno gravi, come appunto è il caso del povero Giulio. Io gli sono affezionata e provo una gran pena per lui.»



«Dunque, non è un medico?»



«Lo sarebbe stato, sfortunatamente invece non lo è. Eppure, lo meriterebbe più di altri…» suor Argenta aveva la voce rotta dall’emotività del coinvolgimento «era uno studente di medicina a Parma, dove aveva superato tutti gli esami con voti eccellenti e avrebbe dovuto laurearsi lo scorso anno, a luglio. Poi successe quel che successe…»



Mari attese che la religiosa vincesse la commozione, le sfiorò la mano con il rosario.



«Mancavano pochi giorni alla discussione della tesi di laurea, quando Giulio ricevette allo studentato dove alloggiava la telefonata di un’amica della madre: fu sconvolto dalla notizia dell’arresto del padre e dello zio da parte dei partigiani rossi in nome di un tribunale straordinario del popolo. Può immaginare di chi parlo?»



Mari si limitò a un cenno di assenso, interdetto dal presagio di un terribile dramma.



«I due fratelli arrestati erano i farmacisti del paese, a Vallolo al Serio» proseguì suor Argenta «lo zio era stato un fascista della prima ora e aveva aderito alla repubblica di Salò, ma il padre non si era mai occupato di politica, nemmeno aveva la tessera del partito fascista. Giulio scese dal treno, uscì dalla stazione e vide lo scempio che era stato compiuto: i partigiani li avevano fucilati e appiccati a un albero dei giardini pubblici, al collo cartelli osceni. La madre e la sorella di Giulio piangevano disperate su una panchina guardate a vista da una coppia di partigiani con i fucili spianati. Fu possibile tirare via i cadaveri solo dopo alcuni giorni, fu data loro sepoltura senza nemmeno poter celebrare i funerali… assassini e atei…»



Di nuovo la commozione smorzò le parole.



«E Giulio ne fu sconvolto» le sussurrò Mari stringendole la mano «per questo non si laureò?»



«La discussione della tesi fu rinviata all’autunno, ma Giulio continuava a stare male, si era chiuso in sé stesso, neanche usciva più di casa. Né sua madre, né sua sorella riuscivano a parlargli, a confortarlo in qualche modo. Lui ormai deperiva sempre di più e lo scorso Natale le due donne decisero di farlo ricoverare in una clinica in Brianza, non ricordo esattamente dove.»



«Si ristabilì almeno nel fisico a giudicare dall’aspetto…»



«Questo sì, ma la condizione mentale andava peggiorando. Soffriva di crisi di panico in continuazione, era instabile nel carattere fino a rasentare l’isteria a volte, non lo si poteva contraddire senza subire reazioni aggressive. Purtroppo, si era sempre più convinto di essersi laureato e di potere svolgere l’attività di medico dove era ricoverato.»



«Come è successo oggi con me» osservò Mari.



«Mi creda, Colonnello, è successo solo un’altra volta da quando è stato trasferito qui da noi» suor Argenta si alzò rivolgendogli un’occhiata supplichevole «e non si ripeterà più, le assicuro. Giulio sta compiendo progressi settimana dopo settimana secondo lo psichiatra che lo ha in cura.»



«E forse un giorno si laureerà per davvero» la confortò Mari «immagino che sia questa la sua speranza, sorella.»



«La fede può fare miracoli e noi qui aiutiamo anche la divina provvidenza…»  



«Luigi, Luigi!» Iolanda spalancò la porta, trafelata e spaventata «stai bene? Ho incontrato suor Rosalba che mi ha raccontato…»



Mari le andò incontro abbracciandola.



«Nulla di cui preoccuparti» le sussurrò all’orecchio «sto benissimo, vero madre Argenta?»



«Non ne dubiti, signora» la suora si rannicchiò sotto il velo «adesso è preferibile che vada. Ci vedremo alla santa messa stasera per gli auguri.»



«Grazie per tutto, sorella. Non dimenticate il nostro pranzo…» raccomandò Mari stretto al fianco di Iolanda.



«Per lui desinare è un impegno fondamentale, lo perdoni» commentò questa sorridendo «a più tardi, spero.»



Mari tornò alla finestra. Al gelo del mattino si era avvicendata un’acquerugiola lenta e persistente sotto un cielo compattamente grigio. Iolanda gli venne vicino, osservò il parco spopolato di ogni vivente.



«Conosco questa tua espressione» bisbigliò mettendosi sottobraccio al marito «conosco il tuo silenzio quando scorrono pensieri che ti tempestano.»



Lui non disse nulla, e seguitò a scrutare prati e boschetti per scovare il riparo dei tanti uccelli che aveva ammirato poco prima.



«È la Vigilia di Natale… ed è stato il primo anno di pace» si rivolse a Iolanda fissandola negli occhi «però la guerra ancora ci tormenta: lutti inconsolabili, sofferenze immutate, rovine e guasti ovunque. Desideravo una giornata serena, ma sbagliavo…»



Iolanda si appoggiò a lui, il capo sul suo petto.



Mari le accarezzò i capelli neri sciolti sulle spalle, la baciò sulla nuca.



«Da questa mattina» disse «ho ininterrottamente aggrovigliato il mio tempo a considerazioni, ragionamenti che senza scampo mi riportano al pensiero della guerra, a tutte le guerre. Ho detto a suor Rosalba che la guerra è il peccato capitale dell’umanità…»



«Quante volte ho ascoltato questa tua idea così pessimista» Iolanda gli batté la mano sulla spalla.



«Credo di avere sbagliato, di averne sminuito la gravità. La guerra è il mostro che ci corrode l’esistenza, sempre, comunque: anche quando non ci appare, quando errando pensiamo di essere in pace» la voce si fece più grave «è un mostro che abbiamo creato, che abbiamo perfezionato, che abbiamo ingigantito con la scienza. È un mostro che ci sbrana senza sosta, che ci divorerà fino all’ultimo essere umano. Con che animo possiamo festeggiare il Natale? Come ricevere il principio della luce? Come accogliere la presenza di dio per chi crede?»



Mari tacque. Iolanda rimase in silenzio, gli occhi gravidi di lacrime.






Dedicato
a coloro che soffrono in  tante guerre nel mondo,
ai bambini e ai giovani che ne sono le vittime disgraziate,
a coloro che sono morti in combattimento o per fatalità,
tutti quasi sempre ignorando la ragione ultima di tanto odio per la vita .


 

 

 

 



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