Roma, domenica 24 dicembre 1944 «Otto mesi, tre settimane e cinque giorni, e sono ancora vivo!» Luigi Mari sospinse di slancio la sedia a rotelle alla porta del salotto, allargò le braccia e sorrise all’amico Roger Stratton, sebbene questo fosse vieppiù sconcertato sia dalla vivacità dell’accoglienza, sia dalla condizione del suo ospite. Nei primi anni ʼ40 Stratton era stato captain della U.S. Navy presso il comando dell’Atlantic Fleet, poi sul finire del ’43 era stato trasferito in Italia come agente dell’O.S.S., nel reparto special operations del maggiore Bill Patterson, nel coordinamento delle attività di sabotaggio e interdizione contro le forze di occupazione tedesche. Lui era stato il diretto interlocutore di Mari, a sua volta al comando del Fronte Militare Clandestino, formazione della resistenza composta da ufficiali, sottufficiali e soldati del Regio esercito. «Ehi Luigi, a vederti stai…» Stratton alzò gli occhi al soffitto, schioccò le dita per fugare l’incertezza «come dite… stai ʼna bellezza.» «Si dice così a Napoli, amico mio, lo dicono in Campania» Mari rise e si spostò in avanti «le solite contaminazioni della lingua italiana non ti lasciano.» «Hai ragione, ma è là che sono stato assegnato all’arrivo in Italia, là ho iniziato a amare il tuo paese, il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda et l'Alpe» l’americano sospirò, l’atteggiamento sviato da piacevoli pensieri «now, my friend, dimmi di te piuttosto: non ti vedo da giugno e immagino che quel conteggio del tempo riguardi qualcosa di diverso ancora, al di là della convalescenza…» Mari fece cenno all’amico di sedere sul divano accanto a lui. L’altro si assestò sui cuscini alto com’era, slacciò la giacca blu a doppio petto e accavallò le gambe, si ravviò i capelli rossi, folta cornice della espressione incuriosita dall’attesa di una risposta. «Conto ogni mattina il tempo della mia nuova condizione» iniziò Mari, il tono di voce leggero «è come se mi fossi allontanato dal mondo, dalla guerra, dall’odio per il nemico, dalle tragedie dei miei uomini…»







La voce si ruppe in un respiro faticoso, un soffio di commozione, una pausa silenziosa e dolorosa. Sapeva bene che inizio aveva avuto quel conteggio di mesi, settimane, giorni: ventotto marzo, la sera del ventotto marzo quando era stato intercettato a Porta Pinciana dai soldati della Schutzstaffel al comando di Priebke. Inseguito tra gli spari a via Lombardia, era stato trafitto dai proiettili due volte alla gamba destra. Sanguinava e correva verso il palazzo dove abitava sotto falsa identità, sanguinava e le forze gli erano mancate: aveva fatto in tempo a entrare nel portone, ad attraversare l’androne e a scaraventarsi nell’atelier sul cortile. Era stramazzato dopo avere varcato la porta d’ingresso a vetri. Al trillo del campanello a molla alcune lavoranti erano accorse intorno a lui privo di sensi sul tappeto, insanguinato com’era. Benché non lo conoscessero non avevano esitato un istante a eseguire gli ordini concitati della titolare: di volata nascondere quel ferito esanime, mettere via il tappeto macchiato di sangue e ripulire il pavimento. Dalla soldataglia nazista lo avevano nascosto e protetto, così rischiando gli avevano donato un’inverosimile speranza di sopravvivere. La titolare dell’atelier, Iolanda Pandolfi, lo aveva curato in casa sua al terzo piano dello stesso palazzo e lo aveva salvato. «So a cosa stai pensando» Stratton gli posò la mano sulla spalla, poi con una stretta affettuosa ruppe il flusso di pensieri dell’amico «allora trascorsero due settimane senza avere tue notizie… poi un’amica di Iolanda che aveva un lasciapassare dell’ambasciata spagnola riuscì a mettersi in contatto con me.» «Fosti tu a portarmi i medicinali, le penicilline, gli antidolorifici» aggiunse Mari «neppure alla Farmacia Vaticana era stato possibile ottenerli. Ricordo bene la tua prima visita qui, in questa casa: avevo il letto nella stanza degli ospiti, giorno e notte in penombra, una condizione incosciente tra febbri improvvise e interminabili fitte laceranti…» «Hai combattuto la tua battaglia per sopravvivere giorno per giorno, Luigi.» «Grazie anche a te, grazie a quanto avete fatto per noi» Mari tossicchiò, dalla tasca della giacca di Harris Tweed portò il fazzoletto profumato alle labbra «con la liberazione di Roma avete compiuto un’impresa memorabile, avete realizzato un sogno, anzi la fine di un incubo, del peggiore degli incubi…dopo via Rasella poi…»







L’americano si alzò e avvicinò alla portafinestra del balcone, che coronava il palazzo tutto intorno. Osservò dall’alto a destra, quindi a sinistra l’accendersi delle luci della città a contrastare l’imbrunire di una giornata insolitamente fredda e piovosa. «Dopo ci siamo visti spesso, quasi tutti i giorni per qualche settimana» Stratton si incupì, la voce spezzata da un turbamento improvviso «poi tutto mi è crollato addosso: il rientro d’improvviso in Virginia, a Norfolk per la sepoltura di Joseph, mio fratello caduto nel Pacifico, la scoperta del perdurante tradimento di Helen, il divorzio in tutta fretta a causa della sua avanzata gravidanza. La guerra procura tante ferite e tante cicatrici, e non sono quelle del corpo le peggiori.» Il picchiettio breve e leggero alla porta precedette l’apparire di Annina, la governante di casa, e il suo borbottio alle prese con un largo vassoio con tazze, teiera e bricco del latte e un’alzata con biscotti da poco sfornati, fragranti di zenzero e cannella. «Ecco qui il tè del pomeriggio, stiamo alle ultime riserve di quello al bergamotto» così lei brontolò affaccendata a disporre tovaglioli, posate e porcellana «finirà mai questa scarsezza? Non ci dormo la notte ad arrovellarmi perché in cucina niente manchi…» Anni prima della guerra Annina, come tante donne nubili in cerca di lavoro, era arrivata a Roma dai Castelli Romani e, grazie a un bottegaio compaesano, al servizio di Iolanda Pandolfi: si era affezionata a lei e alla casa, ma d’abitudine conservava ancora una irrefrenabile schiettezza campagnola, in unione con una rustica spontaneità e un’innata insofferenza per qualsiasi inconveniente alla conduzione domestica. «Okay, okay Annina, messaggio ricevuto» Stratton si avvicinò a lei con un largo, prolungato sorriso «prometto che dopo Natale le farò avere una cassetta con tutte le varietà di tè che le occorrono» si chinò quindi sul tavolino da fumo imbandito «oh my God, questi biscotti sono una vera tentazione!» «Servitevi pure, Comandante» Annina si ritrasse, un poco arrossita, smarrita tra gratificazione e incertezza «torno in cucina, ho il mio daffare a preparare una verace cena della Vigilia, per quel che è costata. Chiamate pure se desiderate.» «Grazie Annina, non sarà necessario» la rassicurò Mari «sarete puntuale come sempre e Iolanda ha promesso di non tardare.» Grazie al conforto dell’ineccepibile tè e per merito della squisitezza della varietà di biscotti i due compagni di guerra tralasciarono ogni precedente considerazione, ne rimossero le emozioni, si scambiarono apprezzamenti e gesti di soddisfazione. «Dimmi tu ora» Stratton fissò l’amico con un’occhiata interessata e altrettanto invadente «mi hai scritto che in questi mesi la devozione per Iolanda è mutata in un sentimento più…» «Mi sono innamorato, Roger!» Mari quasi rovesciò la tazza per l’istintiva reazione verbale, gli occhi lucenti di contentezza. «I should have guessed it, sono felice per te. Qualcosa avevo intuito dalle tue lettere…» l’americano ciondolò più volte il capo, lo sguardo complice di quella ammissione «e sono certo che Iolanda ricambia intensamente il tuo amore: ricordo con quanta premura si prendeva cura di te, come ti confortava, l’instancabile dolcezza che ti dedicava… Mari arretrò con uno scatto la sedia a rotelle, come un salto di gioia. «Ci sposeremo! Ci sposeremo non appena sarà finita questa dannata guerra» confessò precipitoso «neppure mi interessa tornare a camminare oppure no: voglio vivere con lei, per sempre, qualsiasi sia il mio destino.» Stratton si alzò e abbracciò l’amico, lo strinse forte: erano scossi da un’emozione irrefrenabile, qualcosa che entrambi riconobbero come una gioia da troppo tempo attesa. «La fine della guerra è l’unico nostro desiderio, il solo obiettivo di tutte le nostre offensive» il timbro di voce di Stratton divenne formale, come studiato e ripetuto a guisa di formula rituale, di convinto dogma incrollabile. «Permettimi di nutrire qualche perplessità» Mari lo interruppe, le mani levate e agitate a manifestare netto dissenso «almeno di recente alcune decisioni del comando degli Alleati mi sembrano contraddirti…» Stratton rise, una smorfia di ironia in volto, si alzò e come irritato incrociò passi irrequieti e sbrigativi a percorrere qua e là la grande stanza. «Damn, Luigi, non lo crederai davvero!» «E invece ti sbagli, amico mio» ribatté Mari risoluto «ne sono convinto per quanto dimostrano sia circostanze precise, quanto documenti inequivocabili. In almeno due occasioni nelle ultime settimane il Comando Alleato ha creato condizioni avversanti la resistenza all’occupazione nazista e alla sopravvivenza del regime fascista.» «Immagino a cosa ti riferisci, suppongo quali dubbi e turbamenti possano aver generato» Stratton lo scrutò accigliato, poi si fermò alla porta finestra ad osservare l’alternanza di luci e ombre in via Veneto «in primo luogo sei rammaricato delle eventuali conseguenze al proclama del generale Alexander…»







«Diamine, è stato scandaloso!» reagì Mari, battendo i pugni ai braccioli della sedia a rotelle «non ci si rende conto di cosa abbia significato quella decisione per chi è alla macchia, in clandestinità o in montagna: lo scoramento di quegli uomini che tutto hanno sacrificato per volere combattere i nazisti e i fascisti accrescerà la loro sfiducia, li trascinerà al dubbio, cullerà i desideri di abbandonare la lotta già impari. E non è tutto…» Mari tacque, rinserrò le spalle, il capo chino a spuntare per priorità una lista di angoscianti valutazioni. «Kesselring avrà gioito dal suo letto di convalescenza» proseguì a bassa voce «considera quale incredibile vantaggio strategico hanno ottenuto gli occupanti tedeschi: mesi e mesi di pressoché tregua unilaterale, quindi tempo utile per riorganizzarsi, rinfrancarsi, riposizionarsi, rafforzarsi, bonificare i territori occupati con arresti, delazioni, persecuzioni, torture, rastrellamenti, esecuzioni sommarie e ogni altra crudeltà. Complimenti a tutto il comando alleato!» «Mi rendo conto che può sembrare così» azzardò Stratton «ma non lo credo, anzi…» Mari lo azzittì con un’occhiata accesa di sdegno. «E i fascisti e la polizia segreta, i miliziani, i legionari fanatici e gli approfittatori criminali?» proseguì con intento censore «forse avranno campo aperto e inerme per nuove nefandezze fino a primavera? Si sentiranno liberi di perseguitare chi ha avuto coraggio e forza di ribellarsi al regime?» incollerito avvertì la piena ragionevole giustezza delle proprie considerazioni «oppure ci sono altre innominabili intenzioni degli Alleati? Che posso immaginare? Un’amnistia generale piuttosto che singole clemenze? Condizioni capestro da applicare all’Italia in una prossima conferenza di pace? Addirittura manlevare i nemici di oggi per legittimarli in una inedita coalizione bellicista contro uno scomodo alleato di oggi predestinato all’ostilità in un futuro più o meno prossimo? Che cosa ancora?» L’americano sedette sul divano, di nuovo accanto all’amico, ma rivolgendogli l’espressione ferma di chi è aduso al pieno controllo delle proprie emozioni. «Sai bene che le operazioni strettamente militari proseguono, con una moderata lentezza ma procedono» affermò con intonazione decisa mentre scrutava i vari tipi di biscotti rimasti «vedrai che i fatti daranno ragione a entrambi, non certo alle tue ansie.» «Roger, se la stima che provo nei tuoi confronti facesse difetto, dovrei credere che mi stai giudicando incapace di comprendere la reale valenza perfino di documenti e di vostre iniziative di incerta intenzionalità…» «Già, i documenti che accennavi» lo interruppe Stratton «dunque, dimmi quali generano tuoi dubbi e di conseguenza questa insana angoscia.» «Se non serbassi amicizia e gratitudine nei tuoi confronti» replicò Mari risentito, alzando la sinistra con l’indice teso, gli occhi infiammati dall’indignazione «concluderei la nostra spiacevole conversazione: detesto essere considerato un militare ormai invalido tanto nel corpo quanto nella mente, incapace ora di esplorare e comprendere le direzioni della storia. Tu conosci benissimo il punctum dolens.» «All right, let's do this right, my friend» Stratton alzò le braccia in segno di resa, la voce surriscaldata dalla reazione emotiva alla stizza dell’amico «perdona ogni misunderstanding, mi scuso per qualsiasi malinteso: come sempre sono qui per la stima e la fiducia che meriti come ufficiale e come partigiano, sei nostro amico Luigi.» «D’accordo, anche io mi sono lasciato trascinare dall’irritazione per l’accumularsi di cattive notizie…» Mari ammiccò per avvalorare l’accento conciliante. Stratton si allungò sul divano fino a stringergli entrambe le mani. «Se per cattive notizie» continuò rasserenato «alludi alla controffensiva della Wermacht nelle Ardenne, al disastro di Bastogne, piuttosto che alla temporanea ritirata della terza e della settima armata americana, al dunque puoi dormire sereno: una battaglia persa non comprometterà la previsione ottimista sull’esito finale della guerra…»







«E dunque» lo interruppe Mari «cosa si dice in ambasciata del richiamo improvviso a Versailles del generale Montgomery da parte del generalissimo Eisenhower? Sono verosimili le pressioni inglesi acché Montgomery assuma il comando generale di tutto il fronte occidentale?» «È prematuro pronosticare» Stratton sorrise compiaciuto per il rinnovato riconoscimento della propria attendibilità «ti posso confermare che al comando generale dissidi non secondari sussistono tra i comandanti inglesi e i generali americani: forse da ultimo anche a causa degli eventi bellici che citavi.» Mari ascoltava attento, ragionamenti diversi si affollavano in un carosello di possibili ipotesi alternative. «A proposito di inglesi, Luigi» riprese Stratton «tornando al punto di contrasto nella nostra discussione, immagino che ti riferissi a un giudizio sfavorevole sugli accordi del sette dicembre scorso.» «Certamente, i cosiddetti “Protocolli di Roma”» Mari strinse i pugni, una smorfia ironica gli solcò il volto «gli accordi fra il generale Maitland Wilson e il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Italia Settentrionale…»







«Jumbo Wilson, il tatticista amato da Churchill» l’americano tossì smorzando una risata chiassosa «andrà a Washington a rimpiazzare il compianto John Dill. Ma non capisco cosa ti preoccupi di quegli accordi: in ultima analisi qui al comando alleato occorreva una garanzia per l’assegnazione mensile al Comitato di risorse finanziarie rilevanti. Gosh! Sono ben centosessanta milioni di lire al mese…» Mari tacque, attese che l’amico nulla avesse da soggiungere. «Quindi dovresti rallegrarti» proseguì Stratton «ogni divergenza si appiana quando si conviene che tutto quanto abbia un costo, cosicché a tutto sia riconosciuto un giusto prezzo. Non capisco: che cosa non ti persuada? Perché questa tua avversità?» Mari schiarì la voce, sciolse il groppo in gola foriero in un baleno di repliche impulsive, si sforzò di frenarle e si impose in risposta di misurare le parole ad una ad una. «Ascolta Roger: nei protocolli senza possibilità di equivoci è sancita a carico della parte italiana una perdita di sovranità, di libera autodeterminazione, di disposizione dei diritti fondamentali tipici di uno stato libero. La sbandierata cooperazione militare tra truppe alleate e partigiani risulta, di fatto e di diritto, una subordinazione sostanziale, oltreché formale: i vertici della resistenza sono ora sottoposti interamente agli organi di comando degli eserciti inglese e statunitense» Mari avvertì la limpidezza del suo argomentare e lo ampliò «ciò si concretizzerà nell’obbligo per la resistenza di eseguire tutte - nota bene mi raccomando - tutte le istruzioni impartite dal comando alleato. Del resto, il capo militare della resistenza dovrà essere unicamente un ufficiale, non un politico o un borghese qualificato, bene accetto al comando militare alleato, se non addirittura da questo stesso scelto per le vie brevi, e tu mi intendi. Va da sé che l’insieme di questi accordi, il loro tenore, le condizioni oggettive delle parti implichino e anche costituiscano una preoccupante ipoteca sul futuro istituzionale dell’Italia…» Stratton si protese in avanti, la schiena curva, le mani smaniose in un intreccio nervoso. «Good heavens!» inveì a testa bassa «non avrei mai immaginato simili implicazioni.» «In realtà c’è di peggio» insisté Mari deciso «al ritiro delle forze di occupazione tedesche si ribadisce che sarà costituito un governo militare alleato, al quale saranno ceduti tutti i poteri di governo e di amministrazione. Tutto il comando del Comitato di Liberazione Nazionale sarà posto alle dipendenze, sottolineo alle dipendenze, del comandante in capo alleato e dovrà eseguirne qualsiasi ordine, compresa la consegna delle armi. Nulla però si stabilisce per i repubblichini, per i fascisti e i miliziani e tutti coloro che si oppongono ai partiti della resistenza e alla vittoria delle forze alleate. Perché mi chiedo e ti chiedo, perché?» L’americano alzò le spalle, una smorfia di arrendevole incompetenza gli attraversò il volto, lasciando una ruga profonda sulla fronte ampia. Mari rilevò la tacita risposta e seguitò. «È così che si costruisce un destino di nazione sottomessa e dominata» sillabò le ultime parole per rafforzarne la negativa valenza «l’Italia parte dell’Impero britannico, dominio di questo? Perché non anche colonia perfino? Questa è la volontà di Churchill, che la accettiate o meno.» Stratton trasalì, gli occhi dilatati dall’incredulità, le labbra dischiuse, eppure mute. «Non meravigliarti, non lo farei se fossi in te, amico mio» disse Mari con accento caritatevole «altrimenti reputerei che non è stata compresa la effettiva importanza per il premier inglese della sfibrante assurda conflittualità tra il vostro - anzi nostro - generale Clark e i britannici Montgomery e Alexander: in gioco era, e lo è ancora, la supremazia militare come presupposto dell’aspirazione al predominio sull’Italia, nazione centrale nel Mediterraneo e strategicamente indispensabile per il controllo dell’Asia Anteriore…» «E per buona parte del continente africano!» esclamò Stratton annuendo a braccia larghe.







«Roger, sono gratificato che tu inizi ad assecondare le mie elucubrazioni. Tuttavia, c’è un ulteriore preoccupazione ingenerata da quel documento. L’accordo mercenario prescrive il mutamento della preminenza dei valori da difendere: si impone che la massima cura, ripeto massima, deve essere dedicata dalla resistenza a salvaguardare le risorse economiche italiane contro incendi, distruzioni e sabotaggi operati dai tedeschi. Comprendi l’orrore di una simile impostazione?» Mari fissò l’amico con una lunga occhiata inquisitrice «nessun accenno è dato alla cultura, all’arte, all’immensità del patrimonio monumentale. In caso di grave minaccia, di imminente pericolo si dovrebbe difendere l’opificio piuttosto che il Duomo di Milano, le ferrovie meglio dell’Arena di Verona e così ovunque in Italia: che ignobile barbarie!» Mari tacque. Avvertì un’inusitata spossatezza, una vertigine improvvisa che associò alle proprie affermazioni: nel loro insieme le giudicò una sofferta geremiade, in fine dei conti gli parvero una catilinaria invadente e inopportuna nei confronti dell’amico. Provò onesto imbarazzo ad avere ricambiato con quella filippica la visita di cortesia, l’affetto amichevole, la festosa cerimoniosità natalizia. Rivolse lo sguardo a Stratton, e sbalordì: lo straordinario coraggioso compagno di guerra aveva chinato il capo, riassestato le gambe in una geometrica postura, conserte al petto le braccia, cosicché gli sembrò concentrato a condividere la sua stessa emozione, anzi un sincero stato d'animo sospeso tra sconcerto e raccoglimento. I due rimasero in silenzio, ciascuno immerso in sofferte riflessioni, ciascuno a immaginare scappatoie, eccezioni, stratagemmi, opposizioni, interventi contro quell’inciviltà dissimulata, avverso la sottomissione istituzionale colonizzante, al contrasto della mercificazione di valori, ideali, virtù. Dal tavolino da fumo Mari impugnò il campanello di servizio, lo stesso voluto da Iolanda per risparmiargli spostamenti ancora faticosi, e lo agitò per una scampanellata prolungata e nervosa. «Iolanda desidera che possa chiamare la governante senza sforzo» si giustificò riponendo il sonaglio «senza dovermi spostare da solo: ci vuole pazienza, caro Roger.» Dal corridoio un vocio e poi un trepestio catturò la sua attenzione al pari di quella di Stratton. «Non volevo disturbare la vostra conversazione, alquanto animata direi» Iolanda entrò precedendo Annina «sono rientrata poco fa e mi sono trattenuta in cucina per gli ultimi preparativi alla nostra cena di magro della Vigilia» sorrise e abbracciò Stratton, che in piedi si era sbilanciato in un abbozzo di baciamano. «È già sera e vi trastullate ancora con tè e biscotti» rimarcò in tono scherzoso, mentre piroettava qui e là nella sala per accendere varie altre lampade da tavolo «Roger, se ti fermi con noi a cena non te ne pentirai: Annina ha preparato spaghetti con sugo di tonno e capperi, e poi un baccalà siciliano in umido, per desiderio di Luigi frittura in pastella di cavolfiore, broccoli e salvia e anche finocchi gratinati con cacio sabino. E io ho comperato il millefoglie alla crema pasticcera che lui adora.» Mari percepì la grazia premurosa di quell’invito. Iolanda gli appariva radiosa e affascinante, benché avesse trascorso una intensa giornata di lavoro in atelier, benché avesse approntato per ciascuna delle tredici lavoranti un discorsetto augurale, oltre a un pacco dono con quelle ghiottonerie e leccornie limitate dalle persistenti penurie e dai razionamenti. Lui l’amava, l’amava anche per il candore del viso, gli occhi scuri e profondi, i lunghi capelli corvini raccolti a chignon: nonostante i pochi mesi vissuti insieme, provava un sentimento talmente potente e finallora sconosciuto che si era persuaso di averlo solamente atteso da sempre e finalmente trovato con lei.







«Luigi, aiutami ti prego» Iolanda gli prese la mano e si chinò a baciargli la fronte «insisti con me a convincere Roger di rimanere a cena: per quanto lo conosco sono certa che non avrà altri impegni stasera tranne qualche noioso festeggiamento con i connazionali…» «Diamine Iolanda ha ragione!» si inserì Mari categorico come un giudice inflessibile «noi ceniamo presto e, se lo vorrai, ti rimarrà tutto il tempo per gli appuntamenti più o meno ufficiali» aggiunse strizzando l'occhio all’amico. Stratton si schermì con un prolungato sorriso, un leggero rossore gli imporporava il volto. «Sono onorato per l’invito e ne sarei lieto» barbugliò a bassa voce «ma vorrei che Annina non avesse alcun problema in cucina…» La governante lo guardò stupita, le tremolarono le mani con il vassoio caricato di tintinnanti porcellane e argenti. «Oh, ma neanche per sogno» obiettò con la cadenza contadina dei Colli Albani «dove mangiano due, mangiano anche tre, quattro, quanti volete: devo tirare più spaghetti nella pentola e siete benvenuto, Comandante.» Tutti risero apprezzando la saggezza rustica di Annina. «Ovvia, è deciso» concluse Iolanda marcando l’inflessione toscana «lasciateci andare che noi abbiamo ancora daffare…» Stratton le sbarrò il passo verso la porta alzando la mano: «Accetto tutta la vostra generosità, sono felice per la sorpresa dell’invito, ma…» sospirò in una pausa volutamente prolungata «accetto a condizione di rendermi utile in cucina, voglio collaborare e perché no rubare qualcuno dei vostri segreti culinari. Posso dunque?» Iolanda lo squadrò dubbiosa, poi scoppiò in una risata fragorosa, ripetuta, irrefrenabile e ancora ridendo si involò dalla sala, seguita dappresso da Annina. I due compagni d’armi seguitarono a fissare la porta spalancata, ascoltarono quell’ilarità smorzarsi piano piano nei corridoi. «Dunque, non farle attendere, vai che ti aspettano» Mari esortò l’americano con un cenno di invito a seguire le due donne. «Okay, my friend. Sono sicuro che mi divertirò in cucina e perciò sarà una magnifica cena della Vigilia» ironizzò Stratton, che assaporava già la duplice esperienza «prima però ho anche una piccola, piccola sorpresa per te…» Mari accigliò la fronte incuriosito. L’altro sfilò dalla tasca interna della giacca alcuni fogli ripiegati con cura e li poggiò sul tavolino da fumo. «Ti ho fatto preparare una copia della velina che ci ha trasmesso la Segreteria di Stato della Santa Sede. È il documento ufficiale che sarà diffuso via radio stasera: perciò, stavolta non c’è nulla di segreto…» «Il messaggio natalizio di Papa Pacelli!» sbottò Mari accalorato per la sorpresa e per l’interesse a quella anteprima «lo voglio leggere subito.» «Bene, bene» approvò soddisfatto Stratton «non ti anticipo nulla, sarà meglio così. Corro in cucina.» Mari aprì i fogli - una dozzina di pagine in tutto dattiloscritte fitte - e li spianò con il palmo della mano sul tavolo, si spostò con la sedia a rotelle più vicino a una lampada e principiò la lettura “Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei, già per la sesta volta dopo lʼinizio della orribile guerra…”.


Lesse passo dopo passo, ciascun paragrafo con doverosa ponderazione, misurò le parole e la significanza della pretesa pastorale. Avvertì di leggere accompagnato dalla netta memoria della voce di sua santità Eugenio Pacelli: ieratica, a momenti flebile e arrochita, altrimenti stridula e solennemente distaccata, perfino ferale. Lesse con l’apprensione provocata dalla fonte del documento: affrontava il pensiero e la volontà pontificale predestinata dogmaticamente dall’autorità ex cathedra, potenziata dalla fideistica infallibilità della prerogativa esegetica del verbum Domini. Lesse tutto e ripiegò i fogli con precisione, come gli erano stati dati. Si spostò davanti alla finestra e osservò il cielo buio e nebuloso. Avvertì lievitare il turbamento che accompagnava la elaborazione delle riflessioni su quanto aveva letto. Era impressionato dalla esplicitazione della volontà della “riordinazione totale del mondo” esortata come oggetto dei colloqui di pace tra alleati, e nonostante la guerra in corso. Così anche per l’aspirazione ecclesiale a “una vera e sana democrazia” sul presupposto di salvaguardare “la dottrina cattolica circa l’origine e l’uso del potere pubblico”. Analogamente era sconcertato dalla digressione sociologica riguardo “popolo e moltitudine amorfa”, utilizzata per delineare lo “Stato democratico, sia esso monarchico o repubblicano…società necessaria rivestita dell’autorità…quell’ordine assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana, non può avere altra origine che in un Dio nostro creatore”: così per logica conseguenza di “questa intima e indissolubile connessione” lo Stato, le istituzioni e chiunque le rappresenti avranno “la missione di attuare l’ordine voluto da Dio” e anche “i fini assegnati da Dio” nella triplice distinzione di Montesquieu. Era indubitabile per lui che, secondo il messaggio papale, da tale assunto scaturisse il dovere di affidare i poteri a “uomini di solida convinzione cristiana” che dispongono, pertanto, “dell’antidoto spirituale delle vedute chiare”: ciò in modo che “il diritto positivo umano” si conformi “all’ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in nuova luce dalla rivelazione del Vangelo”. E ancora: così stabilito il principio ispiratore si sarebbe costruita “l’unità del genere umano” quale unica garanzia per “l’avvenire della pace” e per “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione”. Mari si distraé per il balenio repentino di un faro militare, che sciabolava l’oscurità con fendenti di luce in ogni direzione: aveva conservato la vigile attenzione di chi è aduso allo stare sul chi vive, a muoversi guardingo. Anche il tenore delle ultime pagine lette era ispirato alla cautela della prassi nella realizzazione di un cammino per un organo comune delle nazioni idoneo “per condurre la mentalità cristiana e religiosa a riprovare la guerra moderna”. Uguale principio di prudenza doveva adottarsi contro nuovi attentati alla pace e, nell’immediato, contro “i popoli, ai cui governi si attribuisce la responsabilità della guerra”, bisognosi di misericordia e garanzie che unicamente i responsabili riceveranno punizione dei delitti di guerra. Se in parte Mari approvava alcune attuazioni di una prudenza derivata dalla tradizione del diritto, fu sbalordito dalla pretesa di individuare la chiesa come “tutrice della vera dignità e libertà umana”: una pretesa annunciata con enfasi ingiustificata allorché il Papa affermava “grazie a Dio, si possono credere tramontati i tempi, in cui il richiamo ai principi morali ed evangelici per la vita degli Stati e dei popoli era sdegnosamente escluso come irreale”. Espressa era la volontà pontificale di ritenere che “se l’avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale nel suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa”, questa incaricata della “sua missione provvidenziale” in quanto “insegna e difende le verità, comunica le forze soprannaturali della grazia, per attuare l’ordine stabilito da Dio”. Sorrise con amarezza mentre ripeteva a memoria le battute conclusive del documento: “Il mistero del Santo Natale proclama questa inviolabile dignità umana con un vigore e con un’autorità inappellabile che trascende infinitamente quella, cui potrebbero giungere tutte le possibili dichiarazioni dei diritti dell’uomo”. Mari si rese conto che il suo turbamento iniziale era mutato più volte: da tenue malumore causato dal metodo oscillante tra approccio escatologico e docenza catechistica, per approdare a verosimile diffidenza, e poi avversione riguardo l’impostazione di egemonia culturale caratterizzata da una grossolana analisi sociologica e una ancor meno plausibile revisione storica: tutto appariva in dispregio di qualsiasi progresso scientifico e filosofico a partire dalla Riforma, tutto era dimentico delle gravi colpe di pontificati attratti unicamente dal potere temporale e politico. L’irritazione era presto debordata in collera provocata dall’energico sforzo di mistificatorio indottrinamento per mezzo anche della denigrazione dei principi fondamentali di diritto e di giustizia, per tacere infine sulla irrisione del pensiero liberale e della filosofia della politica da Aristotele a Hegel. Mari si allontanò dalla finestra, si spostò a un paio di passi dalla specchiera della consolle stile impero. L’immagine riflessa lo tranquillizzò, lo distrasse dal viluppo di complessi ragionamenti, quietò la turbolenza dei sentimenti che si erano succeduti come marosi scatenati dalla tempesta: giudicò presentabile l’abito per la cena, allisciò i risvolti della giacca, sistemò la cravatta bordeaux al colletto della camicia e al taschino la pochette con i bordi ricamati. Provò anche a smontare il cipiglio che mostrava la persistenza del cruccio derivato dalla lettura del messaggio natalizio papale. Tentò di mutarlo inducendo la mimica di varie espressioni, le cui immagini riflesse lo infastidirono di più. Fu allora che alla soglia della coscienza si affacciò un dilemma, un refuso di riflessione che crebbe a congettura corrosiva, insopportabile, molesta. «Poteva esservi» pensò tra sé «un nesso, un collegamento, una qualsiasi corrispondenza o concordanza tra i “Protocolli di Roma” e quello scritto di Papa Pacelli?» La risposta che si diede fu fulminea, improvvisa ma convinta, come fosse stata già latente sebbene inconscia: era possibile, di certo lo era. La curia, il Papa e i suoi stretti collaboratori ben avrebbero potuto coordinarsi con le autorità degli alleati, soprattutto con quegli inglesi sempre attenti a considerare il potere religioso niente affatto disgiunto dal potere politico.


Si accorse che una voragine di nuove ipotesi, di potenziali prospettive, di futuribili assetti si era ormai aperta. «È la Vigilia di Natale» disse rivolto a sé ancora allo specchio. Non fece in tempo a dare risposta al picchiettio secco e deciso alla porta. «La cena è servita, my lord» Stratton avanzò trionfante, il volto segnato da un sorriso carico di buonumore «abbiamo preparato tutto e possiamo andare a tavola.» Si portò alle spalle della sedia a rotelle e impugnò le maniglie di spinta per trasferirsi nella sala da pranzo. «Ti stavi assicurando allo specchio di avere una buona cera?» proseguì ridacchiando «confermo quel che ti ho detto prima: stai ʼna bellezza!» Mari annuì, grato all’americano per l’affettuosa cordialità. «Prima di andare desidero farti una domanda, sempre che tu possa rispondermi…» «Qualsiasi domanda, Luigi» Stratton lo scrutò nel riflesso della specchiera «non ci saranno mai segreti tra noi, lo sai.» Mari sorrise e replicò con un mugugno di assenso. «Perché mai» domandò «la Segreteria di Stato della Santa Sede vi ha inviato in anteprima il messaggio natalizio del Papa? È usuale come cortesia diplomatica? Oppure…» Stratton sospirò e prese fiato, poi rigirò e sospinse lento la sedia a rotelle. «Mi aspettavo questa domanda, Luigi» gli bisbigliò all’orecchio «quei contenuti sono stati a lungo dibattuti dai grandi capi del comando alleato innanzitutto con monsignor Giovanbattista Montini e infine anche con monsignor Domenico Tardini, solo prima di sottoporre il testo definito al Papa.» Mari batté le mani, più che soddisfatto della risposta che gli dava ragione. «Nasce così in questo Natale anche una nuova democrazia popolare, anzi una democrazia popolare cristiana per l’Italia» commentò ironico mentre era sospinto nel corridoio. Iolanda venne loro incontro con passo festoso, baciò Mari sulle guance. «Buon Natale, Luigi» «Buon Natale a te, amore mio.»

